Cambiasso, i giovani e il clan argentino

“È cambiato tanto. Abbiamo toccato il punto più alto nel 2010, che era ciò che si sognava da tanti anni, ancora prima che arrivassimo noi. Oggi siamo in un processo di rifondazione. La maggior parte dei giocatori con cui abbiamo vinto 15 trofei negli ultimi sei o sette anni sono andati via. Ora sono arrivati tanti giovani con grande potenziale, quindi serve pazienza”.jesus kovacicInteressante questa dichiarazione di Cambiasso rilasciata al quotidiano Olè. Niente di nuovo a dire il vero, sono frasi ripetute continuamente come un mantra ipnotico anche da Zanetti e Mazzarri. La responsabilità delle ultime annate fallimentari viene tutta scaricata sui “tanti giovani” che sarebbero arrivati all’Inter, ma il benevolo Cambiasso predica pazienza nei loro confronti. Peccato che basta guardare la rosa per accorgersi che i giovani nell’Inter, cioè gli under 22, sono solo sette, ma quattro di questi non hanno praticamente mai visto il campo e di fatto nell’undici titolare figurano solo Taider e Jesus, più Kovacic che subentra a partita iniziata. Quindi è impossibile che i giovani all’Inter possano influire sui risultati così negativi da tre stagioni a questa parte. Il problema dell’Inter invece in questi ultimi anni è stato il mancato rinforzo del centrocampo, la presenza di giocatori logori e i tanti bidoni, per lo più sudamericani, che sono arrivati in sconcertanti sessioni di calciomercato. A proposito di sudamericani, sempre Cambiasso nell’intervista, dopo aver elogiato il connazionale Palacio (Avete mai sentito Zanetti o Cambiasso elogiare un Ranocchia o un Kovacic?), fa questa considerazione: “È difficile trovare argentini in Italia che non siano interisti. Sin dalla Grande Inter, quella che con Helenio Herrera vinse la Champions nel ’64 e nel ’65, la squadra è rimasta legata agli argentini. Poi sono arrivati sempre nuovi giocatori, sino a Pupi che è quello che rimarrà per sempre nella storia di questa società. A volte quando uno gioca all’estero e fa le cose per bene apre le porte ad altri suoi connazionali”. Onestamente definire la prima grande Inter una squadra argentina mi sembra una forzatura. E’ vero che l’allenatore era nato a Buenos Aires, ma era una figura cosmopolita e i giocatori erano quasi tutti italiani, più due spagnoli e un brasiliano. Ma è l’affermazione “A volte quando uno gioca all’estero e fa le cose per bene apre le porte ad altri suoi connazionali”, che rischia di togliere tante fette di prosciutto dagli occhi. Le mie sicuramente. Se clan argentino può risultare sgradevole o eccessivo possiamo sempre chiamarlo club dell’asado o centro di collocamento amici dell’asado.

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